Vangi a Torino
02 Dicembre 1989 00:00 - 28 Gennaio 1990 03:00
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Società Promotrice delle Belle Arti
Nel Parco del Valentino alla Società Promotrice delle Belle Arti, che vi ha, fin dall' Ottocento, la sua sede, lo scultore Giuliano Vangi presenta una trentina di opere, uscite da quattro anni di lungo, difficile, felice lavoro (Catalogo Fabbri, con saggi di Erich Steingraber e di Giovanni Testori, belle illustrazioni di tutte le opere con molti particolari di ognuna, come si conviene alla scultura).
E' una mostra della maturità, che presuppone tutte le mostre precedenti, ma che da esse anche si distacca; poiché ora ogni opera, ognuna delle trentuno, sembra sorta ormai solamente da un dialogo diretto dell' artista con l' essenza stessa della scultura e con ciò che nella scultura si intende per materia; come se i ricordi,le conoscenze, tutti gli stimoli culturali si fossero annullati e dispersi, e nella fatica di lavorar la materia, di richiamarla alla vita, una totale dimenticanza, o cecità, avesse lasciato libero avvio a una creazione nuovissima.
A far capire la mostra e tutte le sculture, una per una, contribuisce molto l' allestimento che qui, poiché si tratta di un atto inventivo e critico, vuol dire lo spazio suscitato attorno ad ogni opera, spazio che risulta neutro e partecipante nello stesso tempo, che isola e accoglie, e permette all' opera di emettere, come a propria protezione, una fascia di luce e di silenzio, un alone di intagibilità.
Seguo il lavoro di Vangi da tempo e ho visto alcune di queste opere, o qualche altra simile, in ambienti diversi e nello studio stesso dell' artista, ma non mi era mai successo di poterle trovare così stupendamente isolate e nello stesso tempo individuare, tutt' attorno ad esse, ogni particolare, ogni piano, ogni ombra, ogni fessura, superficie, ondulazione, e il loro incessante modificarsi e presentarsi in armonie diverse, modificandosi il punto di vista. La conoscenza e la comprensione ne sono molto aumentate.
Quasi mai una mostra di scultura mi è sembrata così magistralmente allestita; e il merito va all' architetto Giuseppe Davanzo.
Dopo tante fratture, lacerazioni, astratte purezze e astratte impurità, dopo tanti drammi e angoscie, perdite di figura, apparire di oggetti, e racconti, assemblaggi, concettualismi, mescolamenti eterogenei, dopo insomma tutto ciò che ha fatto moderna la scultura moderna (e non lo dico con ironia ma con appassionata partecipazione), sembra che Vangi lavori a rifondare la scultura; non programmaticamente o con volontario determinismo, ma per suo naturale destino e naturale funzione; e non in contrasto a quella storia gloriosa, ma in continuità.
Per questo trovo giusto, nel significato profondo più che nel giudizio di valore, di cui sarà il tempo a decidere la giustizia, porre Vangi, come fa Testori nel saggio introduttivo, vicino ai due grandi e opposti maestri Marino e Moore, quasi a mediar tra di loro, o almeno a sentire ugualmente la scultura voluminosa, cioè fatta per volumi, possente, distaccata e umana.
E vorrei chiarire appena un poco questo dirla distaccata: basterà, per farlo, guardare la pittura, con la quale è sempre possibile creare un rapporto molto stretto, diretto, come di continuità, di legamento, di penetrazione.
Invece la scultura produce un vallo di difesa, un alone di spazio, esige una distanza, vive in un isolamento, come se una magia, una sacralità, una vita imprigionata e cristallizzata la abitassero; sarà per la materia che in essa palpita e si trasforma in immagine, in espressione, senza obliterarsi come materia; sarà perché la scultura è fin dall' origine altra immagine dell' uomo, suo doppio, suo riflesso.
Questa distanza, questa bellezza e assolutezza del distacco, si può sentire e capire nella sua verità di fronte all' opera di Vangi, e alla sua presentazione odierna che tanto più la avvalora.
Il suo soggetto è infatti costantemente la figura umana, perseguita, creata, fatta nascere con una perentorietà, con una sicurezza, con una forza imprigionata e con una ineludibile invenzione, con una ossessiva necessità, che non hanno, o quasi, precedenti.
Il nominare a questo proposito Bacon, come è stato fatto più volte dalla critica, mi sembra oltre che errato, fuorviante: l' umanità e il dramma chiusi entro la scultura di Vangi sono di tutt' altra specie, provenienza e fine. Mentre il far sorgere un popolo di uomini e donne è, per l' opera di Vangi, la prima e più profonda ragione di apparire come vera scultura, come fondante nuovamente la scultura nella sua essenza.
La seconda ragione essendo quella del rapporto con la materia. In questa mostra molto affascina la varietà delle materie: marmo bianco di carrara, marmo serpentino verde, travertino di Rapolano, pietra vulcanica, bronzo, lega di nichel, argento, legno di noce e acero, legno policromo, terracotta. Ogni materia usata secondo la sua potenzialità espressiva, secondo la sua nascosta intenzione formale, secondo le invenzioni e le necessità di quel modesto demiurgo che è lo scultore nel suo studio.
La materia è scelta per un' idea, per una intenzione, poi a sua volta sceglie e intenziona la forma; lo scultore è libero di scegliere la materia poi è prigioniero della materia scelta; nella perfetta armonia tra queste due intenzioni, tra queste due necessità, sta la riuscita assoluta dell' opera. Poi lo scultore lavora più materie, le unisce, le fa convivere, impone la sua volontà di potenza: nel rapporto raggiunto materie diverse posseggono un' unica vita.
Vangi fonda di nuovo la scultura, perché di nuovo crea la scultura con le proprie mani e con la propria forza fisica.
Un artigiano instancabile vive nel grande studio di Pesaro; solo, con l' unico aiuto dei suoi strumenti, passa la giornata a lavorare ogni sorta di materie: scalpella, martella, impasta, leviga, fonde, pialla, toglie, aggiunge, connette; controlla tutto, domina tutto.
Solamente in tal modo può rendere così ricche, naturali, intricate le pieghe di una veste, così crespi e fitti i capelli, tornito il gonfiore di una mammella, appena accennato l' incavo di un' anca, sfiorante il terreno il piede di una donna che corre, delicata la curva di una schiena, possente un torso, vivo un occhio, palpitante un grembo.
Nessuno scultore ha bisogno di tanta forza fisica, di tanta pazienza, di tante lunghe giornate, come Vangi; a un punto che in lui forza fisica, forza spirituale e forza morale fan tutt' uno.
Nascono allora nello studio di Vangi queste opere che, come si è capito, non hanno a che fare con l' espressionismo; poco anche con il realismo; formano una generazione possente, irrompente, carica di forze interne che si placano solo nella chiusa intoccabilità della forma; sono i frutti di un' arte che si chiama scultura, come lo erano i guerrieri e gli dei della plastica ellenica, i profeti di Antelami, la Madonna del portico di Amiens, i crocifissi di Donatello, le Grazie di Canova, le statue di Martini; per indicare a caso sculture che non hanno bisogno di nessun aggettivo e di nessuna interpretazione, oppure di moltissimi aggettivi e interminabili interpretazioni; non certo per indicare rapporti o giudizi di valore.
L' anima di quest' arte che duplica l' uomo vive anche entro le opere di Vangi. Il quale non ha paura di formare nella sua forza e nei suoi particolari un nudo vero di donna; di vestire una ragazza con una vestaglia da casa; di fasciarne un' altra con un cappotto che si apre all' aria nelle sue innumerevoli pieghe di bronzo come se fosse di stoffa e sotto il quale una veste sottile come seta modella nella trasparenza capezzoli, cosce, ginocchi; di farne sedere una quarta su una poltrona di legno.
Poi crea un movimento leggero di volo nel bronzo solido e dorato di Uomo e donna che corrono; fonde una donna sdraiata e un fiore come se sorgessero entrambi dalla terra; crea il blocco candido, poderoso e lunare di Donna vestita di bianco in un ricordo classico e in una forma moderna; non rifugge dalla policromia dei metalli diversi e delle vernici sul legno come non ne rifuggivano gli scultori romanici e quelli greci, non per maggior verità ma per maggior varietà, fantasia e bellezza.
Ha anche scolpito paesaggi ma sempre abitati dalla figura umana e ad essa sottomessi; e dei molti, bellissimi, qui è esposta Donna nel paesaggio, una lastra di marmo bianco su cui la sua mano violenta e delicata ha ondulato la leggerezza di dune sabbiose, di acque e di nuvole. - di ROBERTO TASSI La Repubblica